Il linguaggio politically correct

Sempre più spesso leggiamo suggerimenti sull’eliminazione o la sostituzione di vocaboli con altri più “politically correct”. Non so voi, ma io ho alcune riflessioni da fare

Ogni volta che sento parlare di linguaggio policamente corretto mi viene in mente un antico proverbio: di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. Già, perché l’intenzione di non usare termini dispregiativi, sprezzanti, razzisti, sessisti, è davvero buona. Ed è valida anche l’intenzione di non far prevalere una cultura sulle altre: siamo diversi, ma non per questo dobbiamo ritenerci meglio o peggio. A sfavore del linguaggio politicamente corretto molti portano l’argomentazione del rischio di cadere nel ridicolo, o per lo meno nell’assurdo. È vero, e gli esempi sono infiniti. A favore delle modifiche di linguaggio ci sono buone intenzioni e argomentazioni valide. Prima di tutto il desiderio di evitare qualunque termine offensivo.
E poi viene portata l’argomentazione, molto valida, dello stretto collegamento tra i vocaboli e il modo di pensare. Ma, ahimè, il citato collegamento tra pensiero ed espressione vocale è composto da almeno due elementi che hanno potere quasi uguale: la componente verbale (la parola vera e propria) e la componente paraverbale (il tono della voce). In realtà è dimostrato che, nella comunicazione, la parte paraverbale e non verbale rappresentano una percentuale infinitamente superiore rispetto alla componente verbale pura. In pratica, per semplificare, se fossi Barack Obama potrei essere definito (e così è stato) con diversi vocaboli:
  • nero (termine politicamente corretto)
  • negro (termine ritenuto scorretto in quanto contenente un riferimento razziale)
  • afroamericano (vocabolo ritenuto corretto, che però richiama costantemente il passato schiavista del Paese di cui è presidente, e sarebbe come chiamare gli italiani imperialisti a perenne ricordo dell’Impero romano)
  • abbronzato (vocabolo assolutamente corretto)
Lo so, non posso valutare perché faccio parte della cosiddetta razza bianca (forse), ma tra le quattro scelte proposte credo che il termine negro mi risulterebbe meno offensivo di un “abbronzato” pronunciato con tono ironico. Ma soprattutto, e detto con piena sincerità, perché dobbiamo occuparci e preoccuparci del colore della pelle di qualcuno? La maggior parte delle definizioni di cui si occupa chi “pulisce” il linguaggio ha motivo di essere usata solo in contesti specifici. Mi spiego meglio. Capisco che il Parlamento europeo imponga regole sull’uso dei vocaboli. In linea di massima condivido pienamente. Chi lavora, o parla, al parlamento europeo agisce in un contesto multietnico e multiculturale dove non è praticamente possibile conoscere le sfumature culturali, o le parti sensibili, di tutti: le regole servono ad evitare errori e favorire un contesto “civile”. Riflessioni analoghe valgono per chi opera in ambito salute, scuole, o per chi lavora a contatto con diverse culture … Spesso, con amici di altri Paesi, si ride su come sia facile offendere qualcuno con comportamenti per noi assolutamente normali. Qualche esempio? Non soffiatevi il naso in pubblico in Giappone, non usate la mano sinistra a contatto col cibo se sono presento musulmani, non offrite il primo boccone dal vostro piatto ad un egiziano. Ovviamente tutte queste regole hanno dei motivi, ma generalmente la figuraccia precede la scoperta della regola. Un vocabolario politicamente corretto credo debba far parte delle regole, e delle conoscenze, di chi opera in determinati contesti. Ma allargare il concetto, e gli obblighi, a tutti comporta parecchie assurdità e qualche rischio. È facile epurare libri in nome della morale comune o del linguaggio politicamente corretto. Ma da qui al controllo della cultura il passo è troppo breve: secondo me è meglio non correre il rischio. E, soprattutto, è facile che l’imposizione di un linguaggio politicamente corretto induca taluni a sentirsi autorizzati ad essere eticamente scorretti. E anche qui gli esempi sono numerosi: chi si sente “colto” perché ha una laurea (e magari confonde coltura e cultura) , chi si sente empatico perché conosce la tecnica PNL per entrare in rapport (e prevarica tranquillamente chiunque), chi si sente in armonia con la natura perché è vegetariano, ma non fa la raccolta differenziata … Le contraddizioni umane sono infinite, e secondo me sono tutte accettabili finché non vengono espresse da persone che si sentono superiori agli altri, e si contraddicono proprio sui principi di superiorità che enunciano a pieni polmoni. Ma, per tornare alla lingua, se vogliamo lavorare sul linguaggio politicamente corretto dobbiamo lavorare sia sul fronte vocaboli che su quello paraverbale del tono di voce. E, prima di pulire il vocabolario di noi persone “normali”, vorrei tanto pulire le coscienze!